fine percorso vita

L’inverno delle mosche (in risposta a un articolo di a.b.)

E’ uno strano inverno quello di quest’anno,
un inverno caldo
abitato dalle mosche
ventoso
altalenante
luminoso.
La neve c’è ma non si vede, è neve col trucco. Lo diceva anche il giornale di stamattina che è uno strano inverno, quindi, proprio per questo, potrebbe non essere vero niente, potrebbe essere un inverno come tutti gli altri, e quella letta oggi potrebbe non essere altro che una falsa notizia con un titolo a effetto e il commento dell’esperto a snocciolare statistiche riferite a decenni che nessuno ricorda, e che anche se ricordassimo non sapremmo ricondurre a un’esperienza comune, perché ognuno li ha vissuti a modo suo, pur avendo condiviso lo stesso orizzonte.
Per quanto mi riguarda potrei richiamare non più di tre o quattro inverni con un’intensità tale da coagulare in ricordo, ed erano gli inverni in cui facevo a palle di neve, o quello dell’incidente di mia madre, o l’inverno del trasloco.
Poi niente altro.
Il giornale diceva anche un’altra cosa stamattina, a parte render conto dei quotidiani arzigogoli dello spread (che uno si chiede se anche negli USA ci sia lo spread, e in questo caso il differenziale rispetto a quale stato viene calcolato? l’Alabama? la California? il Nebraska? ma poi ti viene da pensare che no, l’America mica ce l’ha lo spread, loro hanno i subprime, i bambini obesi, le stragi nelle scuole, le pistole in camera da letto. A ciascuno il suo), diceva, il giornale di stamattina, che Elia è morto. Per la precisione: Elia è morto a pagina 19, nella cronaca locale, in un articolo firmato da a.b., come a dire che la sua morte ha meritato sì e no un articoletto siglato solo con le iniziali in minuscolo, mentre la divagazione sul clima alterato era firmata per esteso e in grassetto, da un climatologo diplomato.
a.b. nel suo articolo ha scritto che Elia si è buttato da un terrazzo, un terrazzo che non era neanche il suo, il terrazzo all’ultimo piano del grattacielo più alto della città, che a chiamarlo grattacielo vien da ridere, perché è un palazzotto di altezza modesta, come modesta è la città che lo guarda dal basso, ma alto abbastanza da non lasciare fiato in corpo alla fine della caduta. Anche la descrizione del grattacielo fatta da a.b., pur nella sua obiettività, non può che allinearsi in modo diverso nello schedario mentale di quanti hanno letto l’articolo nel giornale di stamattina. Per me, quel modesto grattacielo ha a che fare con un momento preciso della mia giovinezza, quando salivo fino in cima, eludendo la sorveglianza del portinaio, per ammirare il paesaggio dal terrazzo dell’ultimo piano, un paesaggio niente male nonostante l’altezza limitata, e lasciavo precipitare sputi che sparivano alla vista prima di raggiungere il suolo. E chissà quanti altri, leggendo il giornale di stamattina nel bar dove l’ho letto io, facendo colazione, o durante la pausa pranzo, o stasera quando si fermeranno per l’aperitivo prima del ritorno a casa, penseranno al grattacielo del suicidio come all’avventuroso osservatorio sulla cima del quale si recavano da bambini, anche loro schivando la sorveglianza del portinaio, anche loro stupendosi per la dissonanza tra l’altezza poco newyorkese dell’edificio e la maestosità della vista, anche loro con sputi dispersi prima dello schianto, e sovrapporranno questo evento lontano al volo recentemente compiuto da Elia, pensando che forse anche Elia un tempo era stato come loro, forse anche lui da ragazzo saliva fino in cima per dominare l’intorno e sputare nel vuoto e, d’altra parte, per la proprietà commutativa, forse anche loro in qualche momento della vita sarebbero saliti volentieri fino a quel terrazzo per l’ultima volta, per volarne giù come Elia, solo che non l’hanno fatto, hanno tenuto duro, hanno superato il punto di non ritorno senza rimanerne vittime, e non sono finiti sul giornale per essere raccontati da a.b.
Ma non è questo il punto.

L’ultima volta che vidi Elia fu proprio dalle parti del grattacielo descritto da a.b. nel suo articolo di stamattina; non ci eravamo dati appuntamento, eravamo entrambi di passaggio e ci incontrammo per caso. Mi disse che il giorno dopo si sarebbe dovuto recare in ospedale per un colloquio estremamente importante. Sul momento rimasi stupito, non capivo che tipo di colloquio potesse interessare Elia in ospedale, non certo un colloquio di lavoro, visto che Elia aveva ereditato un piccolo patrimonio dal padre e non aveva bisogno di lavorare per vivere, e di solito chi va in ospedale per una visita o un ricovero non dice “vado a un colloquio”, tantomeno uno come lui, che usava le parole solo dopo averle soppesate col bilancino del lessicografo. Gli chiesi spiegazioni e lui me le diede. Elia voleva cambiare sesso, voleva diventare donna, ma doveva prima sostenere tutta una serie di incontri con una quantità di specialisti e psicologi e consulenti e portantini, per capire se la necessità che sentiva fosse veramente quello di cui aveva bisogno, o non si trattasse piuttosto di una follia di cui poi si sarebbe pentito e da cui non ci sarebbe stato ritorno. Elia non era mai stato frocio, o trans, o quel cazzo che è, era assolutamente normale, lo dico senza infingimenti, senza usare perifrasi, circonlocuzioni; era normale nel senso che era un uomo a cui piacevano le donne, il resto è politica e in questo momento la politica non mi interessa. Non si era mai sposato, non aveva figli, ma gli piacevano le donne, ed essendo discretamente ricco se ne poteva permettere tante, che dopo un po’ lasciava andare, o erano loro che lasciavano andare lui, fa lo stesso, sono certo che per lui questo dettaglio non avesse importanza. Quello che voglio dire è che chi conosceva Elia non si sarebbe mai immaginato una cosa del genere, non avrebbe mai potuto concepire un Elia che diventa donna, neanche in un milione di anni, eppure la sua rivelazione non mi stupì. Anzi, quasi me l’aspettavo. Come gran finale. Come esito naturale di tutto quello che era venuto prima. Come inevitabile corollario di quella che era la sua essenza.
Era uno spasso parlare con lui, una cosa esilarante e odiosa allo stesso tempo, perché non si sapeva mai dove sarebbe andato a parare, dato che discuteva più per spiazzare che per comunicare un’opinione. Diceva una cosa e potevi essere certo che non era quello che pensava, ma nemmeno il contrario di quello che pensava, semmai poteva essere il contrario di quello che avrebbe detto se al posto tuo, a parlare con lui, ci fosse stato qualcun altro, uno che avesse impostato il discorso partendo da presupposti in antitesi a quelli usati da te, e proprio per questo lui, Elia, avrebbe reagito in modo diverso, e sarebbe arrivato a pensarla come te. Insomma, un gran casino. Ma non era uno a cui piacesse esercitare lo spirito di contraddizione per il semplice gusto di sfidare l’interlocutore. Se ne fregava dell’interlocutore, era interessato soltanto a se stesso, era lui l’unica persona a cui si rivolgeva in ogni conversazione. Il suo era un monologo continuo, una sfibrante sfida con sé, alimentata dal fatto che non sopportava di essere quello che era, detestava la sua identità, ma non nel senso che avrebbe voluto essere l’opposto di ciò che era, non perché avesse in odio un qualche particolare e specifico aspetto del suo carattere e desiderasse modificarlo; la cosa è un po’ più complessa, cercherò di spiegare, se non altro per integrare lo scarno articoletto di a.b. con qualche altra informazione che potrebbe interessare quanti, avendo letto le note di a.b. sul giornale di oggi, si saranno chiesti non tanto perché si sia ammazzato (domanda a cui è apparentemente impossibile rispondere, ma solo apparentemente, poiché una risposta esiste sempre), quanto chi fosse Elia. Ebbene, tanto per cominciare, Elia era un pazzo. Davvero. Era proprio pazzo, e se non avesse ucciso suo padre, cosa di cui non fu mai incolpato per il motivo che il padre morì di infarto, quindi “causa naturale”, quindi nessuna effettiva imputazione di omicidio (ma questo non toglie che potrebbe essere stato Elia a scatenare tale causa, a procurare l’infarto, ci sono tanti modi in cui avrebbe potuto farlo), comunque se suo padre non fosse morto, Elia sarebbe stato certamente interdetto, altro che eredità. Ma nemmeno questo ha importanza, non adesso, non nell’articoletto di a.b. pubblicato a pagina 19 del giornale di oggi. Inoltre, non esiste alcuna prova a favore di quanto vado affermando a proposito della pazzia di Elia, dell’omicidio del padre, della possibilità di interdizione, così come, d’altra parte, non esiste alcun argomento in grado di dimostrare che ho torto, o che sto mentendo.
 Comunque stiano le cose, la pazzia di Elia consisteva proprio nel detestare la sua identità, il che può essere frainteso al punto da indurre erroneamente a pensare che avrebbe desiderato un’identità diversa, magari un’altra struttura mentale, o una configurazione fisica di altro tipo, come starebbe a dimostrate anche l’ultima buffonata del tentativo di cambiamento di sesso, che evidentemente non è riuscito a portare a compimento visto che ai piedi del piccolo grattacielo c’era pur sempre un cadavere di sesso maschile (troppi colloqui, ritengo, troppe discussioni con medici, psicologi, portaprovette, barellieri, che lo hanno condotto ad averne abbastanza anche dell’ultima idea alla quale sembrava essersi aggrappato). No, posso affermare con certezza che il desiderio di Elia non era quello di assumere un’identità diversa dalla sua. Si trattava di qualcosa di più radicale. Avere un’identità, qualunque essa sia, vuol dire non poter essere diversi da quello che si è, non potersi mai superare, aversi sempre tra i piedi, ecco, e Elia non sopportava di aversi sempre tra i piedi, di non potersi allontanare da sé nemmeno per un minuto, nemmeno il tempo di pisciare, odiava, dio sa per quale motivo, non poter fare a meno di essere sempre coerente con se stesso, anche quando si contraddiceva, perché anche le contraddizioni che metteva in atto non potevano in nessun caso uscire dagli argini della sua personalità (folle fin che si vuole, ma comunque personalità) e non si capacitava di come riuscissero, gli altri, a sopportare il peso della propria identità senza poterla mai dimenticare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, fino alla fine. Questo dimostra che Elia, oltre a essere il pazzo che era, aveva una conoscenza tanto superficiale dell’animo umano da non saper vedere come l’insofferenza verso il proprio essere sia una caratteristica, se non proprio universale, comunque ben rappresentata tra i membri della nostra specie, compreso probabilmente a.b., lo sbrigativo autore dell’articoletto che riporta la notizia della sua morte.
In ogni caso, pur contraddicendosi in continuazione (contraddicendo le sue stesse opinioni, dunque, non quelle degli altri, cosa che, ripeto, non gli interessava affatto), non si quietava, perché questo gioco, oltre a non essere altro che un puerile artificio, era anch’esso parte della sua identità, non era, come avrebbe voluto, altro da sé; qualunque cosa dicesse o facesse, qualunque maschera indossasse, finiva col diventare qualcosa, qualcosa di identificabile, qualcosa che non poteva essere diverso da quello che era. 
Per un certo periodo Elia fu iscritto alla sezione provinciale della destra giovanile, di cui facevo parte anch’io. La sua iscrizione mi stupii (all’epoca non lo conoscevo ancora bene), poiché ero convinto che le sue idee politiche fossero agli antipodi rispetto alle mie, ero quasi certo che fino a poco tempo prima fosse addirittura legato agli scalmanati dei centri sociali, insomma, ero sconcertato. La rabbia che palesava partecipando alle nostre riunioni, l’odio che esprimeva verso i “rossi”, il razzismo esasperato nei confronti dei pochi negri che a quei tempi passeggiavano per le strade della nostra città, somigliavano più a una parodia del fanatico fascista che all’entusiasmo del giovane idealista di destra. In seguito, negli anni a venire, avrebbe perfezionato il suo modo di danzare sul filo di lama della contraddizione, ma in quei momenti di sfuocato furore politico, in quegli anni in cui tutti, in fondo, sembravamo vivere sopra le righe, il suo atteggiamento risultava ancora più macchiettistico e meno credibile di quello ritenuto accettabile, pur in quella realtà popolata da esaltati. In pochi mesi di attivismo partecipò a diversi pestaggi, lui stesso incoraggiò dei veri e propri raid nei covi di quelli che con tutta probabilità erano i suoi ex-compagni, si sporcò le mani di sangue senza curarsi degli arresti che gli costarono anche una permanenza in galera, e quella fu la cosa che, nel breve periodo, lo rese più fiero, salvo poi vergognarsene, subito dopo, con altrettanto accanimento, così come si vergognò della tessera di quel partito da cui successivamente prese le distanze. Da allora si disinteressò completamente alla politica, la allontanò da sé come la peggiore delle maledizioni, rendendosi conto che niente come le idee politiche può congelare l’identità in una fissità definitiva.
Una notte mi telefonò chiedendomi di andare subito a casa sua per aiutarlo a liberarsi dalla cosa che in quel momento gli pesava più di ogni altra, disse che doveva farlo subito, assolutamente quella notte stessa, per nessun motivo poteva aspettare un giorno di più. Gli risposi che non avevo alcuna intenzione di uscire a quell’ora, fuori pioveva, avevo avuto una giornata tremenda, segnata da un atroce mal di testa che non mi aveva lasciato un attimo di pace, una di quelle periodiche emicranie totalizzanti che mi tormentano da quando ho memoria, ed era inoltre evidente che si trattava di una delle sue solite mattane cui mi ero stufato di assistere e, a dirla tutta, Elia aveva cominciato a darmi decisamente sui nervi, un individuo ormai non più giovane, incapace di trovare un compromesso con le sue ridicole manie e sempre più bisognoso di coinvolgere un pubblico ormai annoiato per mettere in scena i suoi assoli. Mentre parlavamo, però, cominciai a sentire dei colpi assordanti attraverso la cornetta, come se casa sua crollasse, e un istante dopo mi sbatté il telefono in faccia, senza dirmi cosa stesse accadendo. In quel momento pensai che sarebbe stato meglio se Elia si fosse tolto di mezzo una volta per tutte, se si fosse ammazzato, dopotutto non era altro che un povero pazzo, probabilmente parricida, e me ne tornai a letto senza più riuscire a dormire, ma deciso a non accogliere la sua richiesta di aiuto, vera o finta che fosse. La giornata successiva trascorse senza che io cedessi alla tentazione di passare a vedere cosa fosse accaduto e senza chiamarlo al telefono, ma il giorno dopo, non avendo ricevuto notizie, cominciai a sentirmi in colpa, più che altro a vergognarmi con me stesso per l’astio che quell’uomo era riuscito a suscitarmi, e non potei fare a meno di andare da lui, convinto che l’avrei trovato con una pallottola conficcata nel cranio. Rimasi a lungo sul marciapiedi davanti alla casa, sbirciando attraverso la finestra per vedere se all’interno fosse visibile qualche ombra di movimento e, in caso affermativo, me ne sarei andato senza suonare, mi bastava sapere che non era successo niente di tragico, sarebbe stato terribile se la polizia lo avesse trovato stecchito sul pavimento, con l’ultimo numero in uscita dal suo telefono che corrispondeva al mio. Fissai a lungo la finestra del primo piano, ma non vidi niente, nessun movimento, niente luci accese, solo un silenzio di tomba, poi scavalcai il cancello, mi avvicinai al portoncino d’ingresso, estrassi un fazzoletto dalla tasca e, dopo essermi assicurato che intorno non ci fosse nessuno, girai la maniglia con la mano avvolta nel fazzoletto. Non era chiuso a chiave, non so perché ma me l’aspettavo, ed entrai. Sembrava che l’interno della casa fosse stato attraversato da un ciclone, c’era carta ovunque, fogli strappati, libri a pezzi, cocci di vetro, specchi infranti, ma soprattutto carta, carta dappertutto, carta lacerata e calpestata, il pavimento non si vedeva neanche più. Doveva essersi accorto che qualcuno era entrato, e cominciò a chiamarmi, chiamò proprio me, fece risuonare il mio nome attraverso le stanze sconvolte, come se avesse sempre saputo che avrei finito con l’andare da lui, come se non stesse aspettando altro che questo, e di nuovo in me montò una rabbia cieca, un odio gelido talmente intenso da alterare il gusto della saliva. Non mi rimase che camminare in direzione della sua voce odiosa, cantilenante, scivolando sui fogli, calciando gli oggetti che rendevano difficoltoso il passaggio, e lo vidi, seduto per terra, nel soggiorno, le librerie divelte dal muro, circondato da libri da cui strappava pagine con una lentezza e un disinteresse tali da lasciarmi di stucco. Mi guardò, sorridendo come un ebete, mezzo sepolto dalla carta, dalle copertine, dai libri a pezzi, la soddisfazione che doveva provare in quel momento era lampante. Non disse una parola, si limitò a fissarmi e a sorridere, godendo nell’aver distrutto la sua collezione di libri, migliaia di libri, gli unici oggetti da cui credevo non si sarebbe mai potuto separare, l’unica presenza costante della sua vita. C’era parecchio sangue sulle sue mani, ormai coagulato, e altro sangue spiccava su molti dei fogli che ricoprivano il pavimento e sui pochi mobili i cui pezzi erano sparsi per tutto il soggiorno. Elia si ostinava a fissarmi, ghignava e mi guardava fisso negli occhi, allungava le braccia tastando a caso sul pavimento, guardando solo me, poi prendeva un pezzo di libro, ne strappava le pagine e le lasciava cadere ai miei piedi. Continuò a ripetere questi movimenti, gli stessi che probabilmente reiterava da quando mi aveva telefonato l’altra sera, finché non mi avvicinai, gettai a terra il fazzoletto che ancora mi avvolgeva la mano e lo presi a calci e pugni fino a sentirmi indolenzito. Elia, come mi aspettavo, non emise un fiato, non tentò di difendersi, non disse una parola. Erano anni che non picchiavo qualcuno in quel modo, avevo scordato quanto potesse essere gratificante sentire un corpo completamente inerme soccombere sotto i propri colpi, dati a mani nude. Sentivo che se non me ne fossi andato immediatamente avrei anche potuto ammazzarlo, dunque mi fermai, rimasi per qualche istante sopra di lui, senza nemmeno guardare come l’avevo ridotto, poi mi voltai e uscii di corsa dalla casa.
 Decisi che da allora non avrei voluto rivederlo mai più, ma lui non me lo concesse, di tanto in tanto si rifaceva vivo, mi tormentava con i suoi giochetti insani, mi disgustava con i suoi paradossi senza senso, mi spediva lunghe lettere da piccoli paesi in cui di tanto in tanto si rifugiava per alcuni mesi, a svolgere chissà quale attività, paesi infognati in terzi mondi schifati anche dai missionari più incarogniti, fino alla trovata del cambio di sesso.
Ed eccoci giunti al terrazzo del grattacielo più alto della città, dove Elia la fece finita, ma dove avrebbe anche potuto decidere di giocarci l’ultimo tiro, l’ultima contraddizione. Che fosse pazzo l’ho già messo in chiaro, devo però ammettere che ho mentito sul fatto che non avrei le prove per dimostrare l’attendibilità della mia affermazione. In realtà le prove le ho, lo affermo con certezza, non posso avere dubbi, per il semplice motivo (mica tanto semplice, in fondo) che io sono Elia, io, finalmente smarrito in mille frammenti che si confondono e si intrecciano nella trama della mia pazzia, io, che in questo preciso istante mi sto sporgendo dal terrazzo all’ultimo piano del modesto edificio più alto di questa piccola città, che, nonostante la sua innata mediocrità, ha sviluppato una ridicola mania di grandezza, ha cominciato da qualche tempo a darsi delle arie, e questo la rende un po’ più sopportabile ai miei occhi, io, che in questo preciso istante mi ucciderò, saltando dal terrazzo da cui ho appena lasciato precipitare uno sputo, che questa volta non si è dissolto prima dell’impatto, questa volta ho visto dov’è caduto, e quello, proprio quello, sarà il punto in cui mi troverò tra breve, con queste pagine nella tasca posteriore dei pantaloni, pagine che sto scrivendo in risposta all’ipotetico articolo a firma di un qualunque a.b. che domani riporterà in un paio di colonne il breve resoconto della mia fine, a pagina 19 del quotidiano locale. 
O forse no, magari non salterò, nonostante lo sputo mi abbia indicato la traiettoria, me ne potrei stare qui, come un tempo, da bambino, a osservare il sole che tramonta su una città che nel corso del tempo ha finito col somigliarmi sempre di più. In questo pomeriggio di mezzo inverno, uno strano inverno caldo, solcato dalle mosche, ventoso, altalenante, luminoso, potrei starmene quassù ancora un po’, e poi scendere a offrire una birra al portinaio di questo borioso condominio convinto di essere grattacielo, passare la serata con lui e raccontargli di come ho evitato che a.b. scrivesse la cronaca del mio suicidio.

La rondinella e il fato

Era un mattino, verso mezzogiorno,
s’era alle soglie del solstizio estivo
e ‘l tempo della scuola ormai finito.
Dalla mia stanza udivo
la voce della mamma nel soggiorno
ad annunciar che ‘l pranzo era servito,
quand’ecco che rimasi sbigottito
vedendo al davanzale
un uccelletto che sbatteva l’ale
e che parea di molto spazientito.
“Spalanca la finestra, fammi entrare!”
disse ‘l pennuto saltellando in tondo,
“e quel che t’ho da dir sta ad ascoltare” Leggi il seguito di questo post »

Enrico

“Ehi, guardate là!” disse Elena agitando la mano per attirare la nostra attenzione.
Senza badarla, continuammo a parlare di tariffe ferroviarie under 18, coprendo con i nostri discorsi il brusio in sottofondo. Sara, che aveva appena aperto un’enorme carta geografica sul tavolino, urtò il calice di prosecco e fece finire buona parte del vino sui miei pantaloni. “Stai attenta!” dissi, tamponando il tessuto col tovagliolo. “Dove hai trovato quella carta? Un po’ più grande e avremmo potuto camminarci sopra.”
Feci cenno al cameriere, ma costui era troppo preso da qualcosa che stava accadendo dall’altra parte della piazza per darmi retta. Leggi il seguito di questo post »

Fantasmi urbani

Avvicinando la testa al parabrezza per quanto me lo consente la cintura di sicurezza, guardo meglio la Panda color verdino che sta a meno di un metro dal mio paraurti anteriore, e a quel punto non ho più dubbi: non c’è nessuno al volante dell’automobile, quella macchina sta viaggiando da sola, alla velocità di 40 chilometri all’ora, in una delle vie più trafficate del quartiere più caotico di Padova.

Sono quasi le sette di sera, inverno inoltrato, il sole è già tramontato da un pezzo. Quello che vedo mi stupisce profondamente, ma nello stesso tempo mi scappa anche da ridere. Andiamo! Ammesso che esistano i fantasmi, vuoi che si mettano a guidare una Panda! Ci dev’essere una spiegazione razionale. Mi avvicino più che posso all’auto misteriosa, sollevando il culo dal sedile per vedere se così riesco a individuare la testa del guidatore. Niente. La testa non c’è. Non ci sono nemmeno le spalle. Niente di niente. Da dietro vedo soltanto il sedile, apparentemente vuoto, e i fanalini degli stop che ogni tanto si illuminano di rosso per via dei rallentamenti provocati dal traffico, che a quest’ora rende la circolazione simile a un elastico usurato. Qualunque entità ci sia al volante dell’auto misteriosa sa usare i freni.

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Mani

Uno di quei giardini che costeggiano il fiume Sprea, nel centro di Berlino, non lontano dalla fermata della metropolitana di Hackescher Markt.
E’ un pomeriggio stranamente caldo, più italiano che tedesco.
Una ragazza pallida è seduta su una panchina di legno, con un quotidiano di piccolo formato aperto sulle gambe; sfoglia le pagine, di tanto in tanto avvicina i fogli al viso, poi posa il giornale sulla panchina, abbandona i polsi sulle gambe e rimane a guardare i passanti, e a godersi il sole.
C’è molta gente intorno: turisti e berlinesi, famiglie e persone sole, coppie di fidanzati e barboni con sporte colme di cianfrusaglie, venuti sulla riva della Sprea per leggere, giocare, amoreggiare, scaldarsi al sole, o semplicemente guardare i propri simili.
Qualche corvo dal corpo massiccio si aggira tra gli alberi, con movimenti pesanti, alla ricerca di cibo, evocando, in chi li osserva, immagini alpine.

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